Skip to content

Turnover in Italia, quanti stereotipi da smentire…

Era il 1° gennaio del 2016 quando nelle sale italiane uscì “Quo Vado?”, un film di straordinario successo in cui l’attore comico Checco Zalone affronta il tema del posto fisso. Infatti, la pellicola lo vede nei panni di un dipendente pubblico, impiegato in un lavoro di scarsa fatica e dalla remunerazione dignitosa, disposto a fare qualsiasi cosa pur di mantenere una posizione tanto comoda, possibilmente per il resto della sua vita (lavorativa).

Alla vista di queste immagini, per quanto ironiche, satiriche e caricaturali, viene da chiedersi se celino un fondo di verità e se gli italiani siano effettivamente come vengono rappresentati da Zalone. Noi di ecomunicare, per rispondere a questa domanda, ci siamo avvalsi dei dati forniti da LinkedIn Insight [1], indagando su diversi aspetti chiave del fenomeno del turnover aziendale nel nostro Paese, ovvero del tempo medio che i lavoratori “spendono” mediamente a lavorare per la stessa società.

In particolare, ci siamo chiesti:

  1. Il turnover medio in Italia è così distante da quello dell’Unione Europea?
  2. Il fatto che l’impresa sia pubblica è una discriminante?
  3. Una grande impresa è considerata più attrattiva, ma il numero dei dipendenti e il livello di fatturato influiscono veramente sulla scelta di rimanere?
  4. Il Nord Italia è veramente la destinazione ultima per trovare il lavoro della vita?

Iniziamo con la prima domanda. Secondo un recente report di Assolombarda, un’impresa con sede in uno stato membro dell’Unione Europea, ogni anno cambia il 18,5% della sua forza lavoro. Ciò significa che il tempo necessario per rimpiazzare virtualmente tutti i dipendenti è di 5,4 anni. Ora focalizziamoci sull’Italia. Il pool di aziende esaminate, rivela che il turnover medio è di 5,5 anni – poco più di un mese di differenza; non proprio quel divario che fa gridare al popolo attaccato al posto di lavoro [2].

Torniamo al film di Checco Zalone. Come detto, uno dei classici stereotipi su cui fa leva è quello del dipendente pubblico, in quanto, nell’immaginario collettivo, le società gestite dalla Pa sono un luogo di lavoro che nessuno lascerà mai. Ebbene, le analisi condotte con LinkedIn Insight ci dicono che il turnover in questa tipologia di imprese è superiore alla media dei privati di 0,8 anni, circa 9 mesi e mezzo [3]. Di nuovo, come per la domanda precedente, è vero che una persona spende mediamente più tempo a lavorare per una società se questa è pubblica, ma la differenza con la controparte è minima.

A questo punto, ci siamo chiesti se la sicurezza del posto di lavoro non sia data da altri fattori, come la dimensione della società in sé. Sarebbe lecito pensare che una grande impresa, sia in termini di numero di dipendenti che di fatturato, rappresenti una garanzia in termini di solidità e anche di prestigio. Ebbene, mentre avere un fatturato superiore ai 500 milioni di dollari aumenta il turnover di soli 0,4 anni (circa 5 mesi), il numero di dipendenti non ha addirittura nessun tipo di influenza [4].

Infine, anche l’ultimo quesito ha dato una risposta non solo “non soddisfacente”, ma anche controintuitiva. Infatti, le analisi rivelano che un impiegato medio passa in un’impresa del Nord Italia 0,36 anni in meno rispetto a un’omologa del Sud [5]. Ovviamente questo non significa che non ci sono i flussi migratori dal Mezzogiorno, ma che il tessuto industriale più ampio del Nord Italia, e quindi il maggior numero di opportunità, portano i lavoratori ad essere (leggermente) più predisposti a cambiare realtà lavorativa.

A questo punto, dopo che tutte le discriminanti che abbiamo presentato hanno dato esiti inconcludenti, viene da chiedersi se ci siano parametri che rendano un’impresa più appetibile di altre, magari solo per il fatto di operare in un mercato piuttosto che in un altro. Dopotutto, fino a qui abbiamo esaminato il campione come un unico blocco omogeneo, ma sappiamo benissimo che confrontare una banca e un impianto siderurgico è un po’ come paragonare mele e pere. Per questo abbiamo deciso di suddividere il campione in 12 mercati di riferimento e vedere come l’appartenenza all’uno o all’altro può influire sul turnover [6]. Questa soluzione si è dimostrata azzeccata solo in parte, in quanto di tutti gli ambiti individuati, solamente 3 hanno mostrato una differenza superiore all’anno. Nello specifico, la finanza e il manifatturiero vantano un turnover rispettivamente di 1,7 e 1,2 anni superiore alla media, mentre l’HR ha un tempo medio di permanenza di 1,1 anni inferiore.

In definitiva, questa analisi sembra rivelare che nessun parametro, tra quelli più comunemente presi in considerazione, rappresenti un fattore veramente rilevante per assicurarsi la permanenza di un lavoratore all’interno di una determinata azienda. Questa conclusione potrebbe suonare deludente, in quanto parrebbe delineare il fallimento della nostra ricerca. In realtà, fornisce un’informazione molto importante sul mercato del lavoro in Italia, ovvero che il potere è nelle mani delle aziende stesse. Il ragionamento è perfettamente logico: se nessuna delle discriminanti inserite nel nostro modello si è rivelata determinante nel trattenere un talento, significa che la soluzione risiede in fattori che rispetto al modello sono esterni; e quali sono quei fattori rimasti fuori perché non misurabili?

La risposta alla precedente domanda è sì in quei fattori come l’età, le passioni e le skill della singola persona, ma la si trova soprattutto in tutti quei benefit che la società offre ai suoi dipendenti. Per fare alcuni esempi, lo smart working, la possibilità di avere una crescita professionale, avere un buon equilibrio tra lavoro e vita privata, lo stipendio corrisposto, etc., rappresentano un aspetto cruciale nell’attrarre i profili e, di conseguenza, dell’avere la possibilità di scegliere i più idonei per le necessità di una compagnia. Lo stesso dicasi per i valori di cui l’azienda stessa si fa maggiormente promotrice, come la diversità, l’inclusione e la parità di trattamento di uomini e donne. Sono anni che si dice che questi aspetti siano determinanti, oggi ne abbiamo la prova [7].

[1] Campione di 2636 aziende con headquarter in Italia. Il campione esclude le imprese con meno di 50 dipendenti e che negli ultimi 12 mesi hanno registrato variazioni della forza lavoro superiori al 40%, sia in positivo che in negativo. Dati aggiornati al 1° marzo 2023

[2] Dato ottenuto dalla media semplice del turnover registrato sulla pagina LinkedIn di ogni azienda

[3] Dato ottenuto creando una variabile dummy (1 se azienda pubblica; 0 altrimenti) e regredendo con metodo dei minimi quadrati ordinari

[4] Dati ottenuti creando una variabile dummy per il fatturato (1 se fatturato > $500 mln; 0 altrimenti) e regredendo con metodo dei minimi quadrati ordinari

[5] Dato ottenuto creando una variabile dummy (1 se azienda con sede al Nord; 0 altrimenti) e regredendo con metodo dei minimi quadrati ordinari

[6] I segmenti selezionati sono: agricoltura, automotive, comunicazione, servizi finanziari, salute, HR, IT, logistica, manifatturiero, servizi professionali, immobiliare, utility

[7] L’indagine condotta ha un R-quadro del 6%, ovvero le variabili selezionate “spiegano” coprono solo il 6% delle forze che influenzano il turnover