La pandemia di Covid-19 ha rappresentato una rivoluzione nel nostro modo di lavorare. Da un lato, ha obbligato numerose aziende a ripensare la vita lavorativa dei suoi dipendenti; dall’altro ha stravolto le priorità dei dipendenti stessi, che hanno iniziato a dare sempre maggiore importanza ad aspetti complementari al mero stipendio, come il benessere e l’equilibrio tra vita “in ufficio” e vita privata. Non è un caso che il numero di persone intenzionate a lasciare il proprio posto di lavoro nell’arco di un anno sia notevolmente aumentato. Se si aggiunge che oggi le imprese devono operare in un mercato molto rigido, è facile capire come il welfare aziendale diventi un elemento chiave per attrarre nuovi professionisti, ma anche per trattenerli. Ma noi italiani siamo a conoscenza di questo fenomeno? E che soluzioni stiamo adottando per adattarci?
Per rispondere bisogna innanzitutto capire come si possono mettere a confronto le varie misure di welfare aziendale che un’azienda può attuare e quindi trovare un parametro univoco per lo studio di un fenomeno così variegato. Noi di ecomunicare abbiamo optato per lo studio dell’andamento dell’occupazione di quelle figure che solitamente si occupano di recruiting, aggiornamento e consulenza in ambito welfare. I dati sono stati ottenuti attraverso LinkedIn Insight e si riferiscono a quasi 10mila aziende italiane.
Da una prima analisi, ciò che è emerso è che i lavoratori dipendenti sono cresciuti dell’8,2% rispetto al 2022, quelli aventi mansioni in ambito HR, sono cresciuti dell’11,4%. Questo permette di dare subito le prime risposte alle nostre domande: il segmento delle risorse umane cresce a un ritmo sostenuto, il che porta ad affermare che anche le società italiane hanno compreso il ruolo centrale del welfare e che per adattarsi assumono più personale (e quindi investendo più risorse).
Tuttavia, è noto come il mondo del lavoro sia poco omogeneo e fermarsi qui restituirebbe un’immagine poco rappresentativa della realtà. Per questo motivo, è opportuno approfondire la ricerca attraverso tre diverse discriminanti:
- Il numero dei dipendenti (superiore o inferiore a 50)
- Il fatturato annuo (superiore o inferiore a 500 mln di dollari)
- La posizione geografica (Nord Italia o altrove)
I risultati ottenuti sono stati a dir poco sorprendenti. Il primo dato curioso che emerge è che la posizione geografica dell’impresa non influisce nel suo investimento in welfare; infatti, la variazione percentuale dei lavoratori HR sul totale di un’azienda per la posizione geografica è prossima allo 0. Tuttavia, le informazioni più dirompenti giungono dagli altri due parametri. Nel caso del fatturato, l’analisi rivela che non solo le imprese che fatturano più di 500 milioni di dollari all’anno assumono mediamente l’1,3% in meno di personale HR rispetto alla controparte, ma soprattutto che mentre la percentuale di lavoratori HR per quest’ultima è mediamente dell’11,4%, per le imprese con fatturato alto non arriva all’1,4%; un differenziale superiore al 10%. Per quanto riguarda il numero di dipendenti, invece, si ha che le imprese con un organico uguale o inferiore a 50 assumono il 12,1% in più di lavoratori HR rispetto a chi ha un organico superiore a 50 persone, con un differenziale nelle percentuali che si attesta attorno al 13,5% (15,5% per le prime; 1,96% per le seconde). Quindi, ciò che si ottiene è che le piccole imprese (sia in termini di fatturato che di dipendenti) sono quelle che, in proporzione, investono più risorse in HR e, quindi, nel welfare.
Ma è veramente così? Perché, se per una grande impresa 1-2 professionisti sono sufficienti per gestire il welfare di 100 lavoratori, per quelle di piccole dimensioni ne possono servire fino a 15? E perché le piccole imprese ne stanno assumendo di più (in proporzione), segnalando che questa forbice è destinata ad ampliarsi?
Una considerazione che non è stata fatta, ma che potrebbe cambiare i risultati è che l’HR, inteso come ricerca del personale, reskilling/upskilling della forza lavoro e implementazione di misure di welfare aziendale, non è solamente un ruolo svolto da un numero più o meno alto di professionisti in una società, ma un vero e proprio mercato, che ospita imprese molto diverse e in competizione tra loro. In queste realtà, è lecito pensare che i dipendenti aventi una funzione in ambito HR sul totale dell’organigramma siano molti, in quanto potrebbero svolgerla per realtà diverse da quelle in cui lavorano. In questo caso, i risultati visti nei paragrafi precedenti potrebbero essere frutto di una distorsione. Per verificarlo, basta calcolare la percentuale di professionisti HR in imprese attive nell’HR per poi confrontarla con la percentuale di professionisti HR in imprese attive in altri settori. Si ottiene 22,3% contro 8,7%. Il ragionamento è corretto.
Alla luce di ciò, è necessario ricalcolare la percentuale di dipendenti HR per numero di dipendenti, fatturato e geografia, escludendo però le società attive nel mercato HR. I risultati sono stati i seguenti:
- Se fatturato superiore a 500 milioni di dollari, gli impiegati HR sono l’1,2%; 9,6% altrimenti
- Se numero di dipendenti superiore a 50, gli impiegati HR sono l’1,6%; 13,5% altrimenti
- Se l’impresa ha sede nel Nord Italia, gli impiegati HR sono l’8%; 10,2% altrimenti
Quindi, la differenza tra Nord e resto d’Italia rimane minima, mentre il differenziale tra imprese in base al fatturato e in base al numero dei dipendenti si riduce di qualche punto percentuale, ma resta ancora alto. In conclusione, togliere dal campione la categoria delle società attive nel mercato delle risorse umane ha permesso di eliminare una componente distorsiva da un fenomeno che comunque esiste.
Per capire le origini di questa discrepanza, si è studiato l’andamento del numero di dipendenti con funzioni HR limitato solo a questa categoria di imprese, ottenendo che le società nel mercato delle risorse umane hanno assunto, in media, il 10,6% in più dei professionisti HR rispetto a tutte le altre imprese.
Ma perché, nel corso del 2022, c’è stato bisogno di assumere così tanti professionisti in più? Le risposte possono essere due: per ragioni interne – ovvero per realizzare strategie di espansione o di presidio del mercato – o per far fronte a una forte crescita della domanda di servizi di staffing, welfare e skilling. Se la prima risposta fosse corretta, allora questo differenziale di crescita dovrebbe essere riscontrabile nella crescita di tutte le categorie di occupati, non solo quelli con funzioni di HR, ma il differenziale di crescita della forza lavoro rispetto a tutte le altre imprese si attesta attorno al 2%, non certo sufficiente a spiegare il 10,6% visto in precedenza. A questo punto, non resta che accettare la seconda spiegazione, confermata anche dalla suddivisione del comparto HR: tra i tre segmenti di staffing, skilling e servizi per il welfare aziendale, quest’ultimo è quello che ha fatto registrare la crescita annuale maggiore per nuovi assunti, pari al 29,8%.
L’ultimo interrogativo ancora senza risposta è: da chi arrivano tutte queste richieste di servizi di welfare aziendale, e di HR in generale? Si osservi che il valore percentuale della crescita dei dipendenti HR nelle imprese HR (+10,6%) è molto vicino al differenziale tra piccole e grandi imprese (c’è uno scarto di soli 0,5 punti percentuale). Da questo possiamo individuare un trend secondo cui la domanda di servizi è guidata in larghissima parte dalle grandi imprese, ovvero quelle con più di 50 dipendenti e un fatturato superiore ai 500 milioni di dollari.
In conclusione, ciò che emerge è che le grandi imprese preferiscono esternalizzare l’HR, affidandosi a professionisti del settore, mentre le PMI optano per prendersi cura direttamente del benessere dei propri lavoratori. Purtroppo, i dati in nostro possesso non possono dirci quali sono le motivazioni esatte, ma è verosimile che le imprese più piccole non trovino conveniente inserire a bilancio le spese per un servizio di cui poi beneficeranno solo poche decine di dipendenti, mentre le grandi dispongono di risorse più ampie e possono trovare più conveniente affidare il benessere di centinaia o migliaia di dipendenti a un professionista esterno, in modo da trarne un vantaggio in termini di risorse impiegate e di efficienza.